Recensioni false su Internet: non è una novità, non dovrebbe esserlo almeno. Già nel 2011, qualcuno lo ricorderà, Amazon e TripAdvisor finirono al centro di uno scandalo enorme a causa proprio di aziende e strutture rcettive che pagavano scrittori e web agency per fornire false opinioni da mostrare a potenziali clienti e visitatori.
D’altronde la fetta è molto ghiotta. Secondo quando riporta il Telegraph, il business mondiale che ruota intorno agli acquisti influenzati dalle recensioni online si aggira sui 23 miliardi di dollari. Una cifra astronomica. E uno studio dell’Harvard Business School ha dimostrato che un ristorante, un albergo o qualunque altra attività ottengono tra il 5 e il 9% dei guadagni in più grazie alle opinioni positive dei propri clienti.
Amazon e gli altri colossi dell’e-commerce sono già corsi al riparo, implementando algoritmi che rilevano e bloccano istantaneamente i falsi autori di recensioni. Ma non sembra bastare: lo ha dimostrato, pochi giorni fa, il Sunday Times. Il giornale inglese ha infatti inserito su Amazon un volume sui bonsai scritto in tre giorni, pieno di errori ortografici e concettuali, nonché con pochissime pagine. Dopo aver comprato un pacchetto di buone recensioni (ovviamente false), l’ebook ha riscontrato però un ottimo successo, tanto da finire nella lista dei best-seller.
Lungi dal voler “promuovere” questa pratica, vogliamo invece cercare di capire perché le aziende che sfruttano il web marketing come canale di comunicazione dovrebbero tenersene lontane.
Google potrebbe accorgersene
Google “odia” i contenuti falsi, lo spam e gli scopiazzamenti. Ed è sempre attento a chi cerca di ricorrere a mezzucci e pratiche evidentemente fraudolente per ottenere una buona reputazione online. Ecco che anche le false recensioni potrebbero già essere nel mirino del motore di ricerca, vanificando potenzialmente mesi (se non anni) di legittime attività SEO e SEM.
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Potrebbe essere illegale
Anche se non esiste una legge precisa che regolamenti l’acquisto di false opinioni online, alcuni giudici potrebbero sempre interpretarle come una forma di concorrenza sleale nei confronti dei competitor, oppure come pubblicità ingannevole.
E infatti sta già succedendo. Nel settembre 2013, a 19 aziende dello Stato di New York sono state comminate multe per un totale di 350mila dollari, dopo essere state beccate a scrivere false recensioni. Due settimane fa, in Oregon, un imprenditore è stato condannato a pagare 1,3 milioni di dollari per aver scritto false opinioni su siti come Yelp e Google+, oltre che per aver messo in atto azioni intimidatorie nei confronti di coloro che avevano recensito negativamente la sua attività.
Con l’evoluzione del commercio elettronico e la maggiore attenzione dei consumatori a questo tipo di attività illegittime, le punizioni potrebbero diventare sempre più severe e i legislatori decidere di intervenire direttamente nella questione.
Che figura ci facciamo?
Che figura fa un’azienda che viene beccata a scrivere o comprare false recensioni? Una pessima figura, non c’è dubbio. Tanto più che in alcune occasioni, quest’attività raggiunge i limiti della decenza e del grottesco. È il caso, scoperto dalla BBC, di una falsa recensione scritta per BizzyLoans, sito web di prestiti: l’opinione risultava infatti inserita da Ashley Griffin, una ragazza morta 7 anni prima, in un incidente d’auto. La fotografia usata per la recensione, era stata “rubata” dal un sito web creato in sua memoria. Potete immaginare la reazione del padre quando l’ha scoperto…
Al di là dei casi limite, il sistema delle opinioni online in generale ne risentirà in maniera pesante: i consumatori smetteranno di fidarsi, colpendo in maniera indistinta tutte le attività che hanno migliorato la propria reputazione, onestamente o meno.
Scarsa fiducia nei propri mezzi
L’azienda che ricorre a questo sistema sta dando un messaggio a se stessa, ai propri dipendenti, ai propri fornitori, ai propri clienti: “Non ci fidiamo dei nostri mezzi, del nostro servizio/prodotto: abbiamo bisogno di false recensioni perché, altrimenti, non ne riceveremo mai”. Forse non è proprio il modo migliore per motivare (e motivarsi) a fare un buon lavoro, a offrire un servizio vincente all’unico vero “padrone” di tutto: il cliente finale.
(Photo Credit: AJ Cann on Flickr)